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mercoledì 13 maggio 2009

Sfatare il mito del bambino straniero come "veicolo di malattia"


Numerose problematiche legate al fenomeno dell'immigrazione hanno spesso determinato un'alterata percezione dello straniero attraverso fantasiosi luoghi comuni, frequentemente assunti come pregiudizio dalla disinformazione.

Uno di questi è riconoscere lo straniero come "veicolo di malattia". In tal senso, hanno funzionato da cassa di risonanza sul nostro territorio certi tipi di patologie come la tubercolosi o la malaria, la diffusione incontrollata dell'HIV e della Sars e il rischio di nuove pandemie.

A ciò si uniscono le scarse condizioni igieniche e preventive delle comunità immigrate e le difficoltà di accesso alle strutture sanitarie. È stato stimato di recente che circa il 30% dei bambini immigrati non sia iscritto al Servizio Sanitario Nazionale e che oltre il 12% delle puerpere, durante la gravidanza, non si sottoponga ad alcuna visita o controllo ecografico. Da questi presupposti appare chiaro che l'utilizzo saltuario dei servizi compromette la possibilità di un adeguato follow up medico.




Ciò accresce il rischio di patologie gravi e invalidanti legate anche e soprattutto alla recrudescenza delle malattie infettive. L'età pediatrica è sicuramente la fase più delicata e più soggetta a questo tipo di patologie, sia per la naturale minore immunocompetenza umorale e cellulare, sia per il sovrapporsi di fattori a rischio ambientale determinati ad esempio dalla sospensione dell'allattamento al seno o dal precoce inserimento nelle strutture degli asili nido. Una serie di ricerche avviate dal Gruppo di lavoro nazionale per il bambino immigrato (GLNBI) della Società Italiana di Pediatria, in collaborazione con 21 Centri pediatrici dislocati in 12 diverse Regioni, ha posto di recente l'accento sui dati emersi relativi all'incidenza delle stesse malattie infettive negli ultimi trent'anni. Un'indagine estesa poi a 220 bambini provenienti dall'estero per adozione nell'ultimo quadriennio, raccoglie preziose informazioni sui ricoverati nei reparti pediatrici di malattie infettive, in particolare quelli seguiti presso Centri pediatrici di riferimento per le adozioni internazionali. Dati che si rendono necessari per fugare quell'idea distorta che lo straniero, adulto o bambino, sia "l'untore" divenuto veicolo a scuola, come nella società, delle malattie più strane ed esotiche, e quel che peggio mortali. La paura di essere contaminati può portare a prendere le distanze, a isolare ed emarginare il bambino immigrato, anche se è ormai parte essenziale della nostra realtà. L'indagine medica recente ci mostra come, in qualsiasi paese egli si trovi, il giovane straniero si ammala pressoché delle stesse malattie dei bambini di quel luogo. Si tratta in generale delle cosiddette "patologie d'acquisizione", sostanzialmente aspecifiche, per lo più banali, soprattutto a carico delle vie aeree, gastrointestinali o cutanee. Queste affezioni, così come in tutte le condizioni di rischio sociale, assumono nel bambino extracomunitario maggiore frequenza, gravità e tendenza alle recidive.

Così, ad esempio, fin dalla nascita, il basso peso neonatale è un riscontro che pur oggettivamente frequente per molti soggetti sia nei paesi d'origine (specialmente Africa centrale, estremo Oriente e gruppi nomadi) sia nei nati in Italia da genitori stranieri, diventa determinante anche per un'indagine etnopediatrica che possa prevenire il rischio di patologie infettive future.




Infatti, dalla rielaborazione di questi parametri, è possibile determinare (oltre al precario stato di salute della gestante) uno tra i più importanti indicatori fisiologici di rischio di morbosità e di mortalità infantile.



Contrariamente all'alta incidenza delle patologie d'acquisizione, quelle d'importazione sono meno comuni in età pediatrica.

Si tratta però di malattie non specifiche del migrante, riconducibili effettivamente a uno stato di estrema emarginazione; sono le cosiddette "patologie della povertà" come tubercolosi, scabbia, pediculosi e alcune affezioni fungine.

All'atto pratico questo tipo di positività, frequente tra gli immigrati adulti, deve però essere più attentamente valutata fra i bambini. La sensibilizzazione a queste affezioni può anche essere la conseguenza di un particolare tipo di vaccinazione (BCG) estensivamente praticato nei paesi in via di sviluppo.
D'altro canto, come si evince dall'indagine in precedenza riportata, a eccezione dell'epatite B, prevalente appannaggio degli immigrati, il resto delle patologie infettive (epatite A e C, infezione da HIV, leishmaniosi e lue ) sono state riscontrate prevalentemente nei bambini italiani. Al momento, però, il dato è quantitativamente inferiore a quello riferito alle patologie importate da un qualsiasi viaggiatore che si rechi all'estero per scopi lavorativi, turistici e ludici. Tuttavia, ai soli fini diagnostici e profilattici, è possibile in effetti rilevare una diversa esposizione a certi tipi di malattie tra i bambini immigrati (e figli di immigrati) piuttosto che tra quelli adottati o ai figli di nomadi. Soprattutto per quest'ultima categoria si invitano i pediatri a un più attento e precoce screening sanitario delle patologie di cui sopra. Non ci sorprende, ad esempio, il dato dell'alta frequenza di casi da infezione cronica HBV [nota 3] per molti bambini in adozione provenienti dalla Romania o dagli Stati dell'ex Unione Sovietica, dove le gravissime carenze dei servizi di igiene e salute pubblica non consentono di limitare il contagio, sia per carenze di materiale ospedaliero, sia soprattutto per mancanza di adeguati programmi istituzionali di immunizzazione. In generale, è altresì vero che le strutture e gli strumenti di sanità pubblica di cui disponiamo sono ampiamente in grado di controllare la diffusione delle patologie infettive, purché pronte a confrontarsi con la comunità degli immigrati, spesso poco raggiunti da interventi preventivi. Per gli immigrati, invece, l'inevitabile concomitanza di fattori favorenti la distribuzione degli agenti infettivi, come il sovraffollamento abitativo, le scadenti condizioni igienico-sanitarie, l'inadeguatezza degli apporti nutrizionali, unitamente a un'insufficiente disponibilità di risorse, sono la causa prima di molteplici patologie, oltre che veicolo naturale e specifico di contagio.

In particolare, per la provenienza da paesi con alta incidenza di patologie come tubercolosi ed epatite B, il rischio di infezione e di malattia conclamata è effettivamente aumentato con l'accrescersi delle oggettive difficoltà economiche delle stesse comunità.

Oggi, su questi presupposti, i pediatri dovranno altresì provvedere ad accurati controlli negli adulti e nei bambini conviventi, prescrivendo chemioprofilassi e cure da tenere costantemente monitorate.

La terapia d'urto non deve però alimentare il rischio di un'eccessiva medicalizzazione, che possa infine essere percepita in maniera discriminatoria nei riguardi del bambino e della sua famiglia.

Un aspetto che va attentamente scongiurato, superando le differenze linguistiche e socio-culturali che la comunità immigrata spesso rafforza come bisogno di conservazione e tutela identitaria.

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